Quando si parla di arte, libri e critici sembrano non riconoscere il valore dei contributi che la città di Napoli ha dato nel corso dei secoli. Si parla sempre di linguaggi artistici del centro-nord ma quasi mai si prende in considerazione il lavoro svolto da grandi artisti che si sono fermati in questa città e che qui hanno trovato il giusto ambiente per sperimentazioni che sono state poi usate in seguito come slancio per lo sviluppo di nuove tendenze artistiche, soprattutto nei periodi in cui Napoli era la capitale di un regno potente e glorioso.
Bloccati nei soliti clichè che affermano la prevalenza dei linguaggi artistici come prerogativa sempre e solo del centro-nord, molti non sanno che esistono forme d’arte, uniche in Italia, che hanno avuto la loro origine proprio a Napoli. Pochi conoscono dunque il grosso valore della capitale del sud come centro propulsore da cui si irradiano nuove arti. Eppure sono tanti i periodi in cui Napoli ha dato grandi impulsi allo sviluppo di arti e civiltà, uniche ed eccezionali, che permangono ancora oggi quasi intatte, deliziando i pochi “curiosi” che osano addentrarsi nei meandri del suo centro antico.

Chiesa di Donna Regina vecchia
Uno di questi periodi è quello dei primi anni del 1300 quando la corte angioina di Napoli, cosmopolita e di ampie e raffinate vedute, apre le porte a numerosi artisti che si cimentano liberamente in nuove sperimentazioni. Di recente eletta a rango di capitale, la città diviene dunque il baricentro da cui si diffondono nuove concezioni artistiche che andranno a vivacizzare, in seguito, tutta l’arte italiana. In quegli anni il papato viene trasferito ad Avignone, sotto lo stretto controllo di Filippo il Bello e dei sovrani angioini, e le committenze a Roma diventano sempre più rare, motivo per cui molti artisti, chiamati dalla corte angioina a Napoli, in un momento storico di piena floridezza artistica e culturale, ne approfittano per le opportunità di rinnovamento che la nuova capitale offre. Grazie agli angioini, infatti, viene introdotto lo spettacolare stile “gotico fiorito” o “gotico internazionale”, originario proprio della terra di appartenzenza dei sovrani, la Provenza. Esso rimarrà un esempio precoce ed unico in Italia per lo stile incomparabile che fonde la maestria degli architetti francesi nel creare verticalità straordinarie con quella degli abili napoletani, così distanti ma così vicini nel condividere i più alti ideali artistici tesi a dare slancio alle architetture come alla spiritualità. Insieme essi danno vita ad uno stile che verrà apprezzato in seguito come “gotico napoletano”. Le sue forme, fatte di archi a sesto acuto, volte ogivali ma anche di archi trionfali ribassati, ed affreschi che contornano vetrate istoriate, ancora oggi allietano chiunque visiti la città, ritrovandole in chiese, palazzi e castelli che mantengono inalterata la bellezza originaria, pur avendo subito danni e manomissioni nel corso dei secoli. In opposizione allo stile bizantino, l’arte gotica è alla ricerca di decorazioni che ben rappresentino lo spirito dell’amor cortese e del mondo cavalleresco che predomina la scena sociale europea, ora molto più laica rispetto al passato. Essa predilige dunque atmosfere fiabesche e vivacità cromatiche, dando ampio spazio a nuove tendenze artistiche soprattutto nelle arti figurative e nelle arti minori. Si affermano, dunque, miniature, intagli, mosaici ed affreschi dai colori intensi che abbelliscono chiese e monumenti creando un meraviglioso unicum senza precedenti. In questo fermento culturale si affermano numerosi artisti chiamati a Napoli proprio dai sovrani angioini che sanno apprezzare e remunerare bene chiunque sappia coniugare l’amore per il bello con le necessità di crescita e sviluppo della nuova capitale, lasciando intatto il rapporto con il classicismo e con la spiritualità. Tra gli artisti che meglio si offrono ad espletare questo compito, gli angioini invitano a Napoli Pietro Cavallini, già attivo a Roma ed in cerca di nuove concezioni artistiche per meglio rappresentare lo slancio mistico di un’epoca.

Cappella Brancaccio – Affreschi di Pietro Cavallini
L’artista romano, noto anche come Pietro de Cerroni, per lungo tempo ritenuto erroneamente un seguace di Giotto, si impone a Napoli dove resta una decina di anni, e da vita ad un suo nuovo modello di arte figurativa che, superando il linguaggio pittorico bizantino, e rifacendosi alla maestosità dell’arte antica, usa sapientemente la profondità spaziale per creare, attraverso l’utilizzo del gioco delle ombre, una struttura che appare tridimensionale agli occhi di chi la vede. Egli si mostra così precursore di quell’arte che prenderà il sopravvento da lì a poco ed anticipa così quel linguaggio artistico di riforma che Giotto svilupperà in seguito. A Napoli Pietro Cavallini, creando un impianto strutturale ordinato, dispone gli edifici ai lati delle scene che egli rappresenta e le figure al centro. Riprendendo la tecnica delle decorazioni musive realizzate già a Trastevere, egli inserisce i personaggi all’interno di ambientazioni in cui le architetture e gli spazi sembrano reali e dove i personaggi paiono agire credibilmente in tale spazio. Cavallini cerca di fondere in un unico stile le caratteristiche che egli aveva iniziato a sviluppare a Roma, necessarie ad evidenziare il potere universalistico della chiesa, mediante l’esaltazione di episodi che mostrano l’antichità della chiesa e confermano il forte e indissolubile legame tra il papa e San Pietro con la grandiosità del mondo romano. Allo stesso tempo, l’artista romano riesce anche ad attenersi agli elementi formali gotici, in linea con le richieste della committenza angioina.
Arrivato a Napoli nel 1308, finanziato dal sovrano Carlo II che gli offre uno stipendio di 30 once all’anno più l’affitto di una casa, Pietro Cavallini esegue alcuni cicli pittorici nel Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore, per la cappella Brancaccio. Qui l’artista inserisce gli affreschi in una serie di riquadri a finto mosaico cosmatesco, sulla scia delle forme musive realizzate a Santa Cecilia a Roma. L’uso del colore conferisce una consistenza plastica alle figure che, staccate dal fondo grazie all’uso del chiaroscuro, sembrano tridimensionali. L’artista dimostra di aver studiato a fondo gli affreschi antichi e le diverse potenzialità dell’uso sapiente dei colori per creare forme prospettiche, dando il giusto valore alla lumeggiatura. L’espressività dei volti, talora sofferenti talora sgomenti, lo studio del corpo umano, il drappeggio morbido realizzato grazie ad un preciso uso del chiaroscuro, la trasparenza delle vesti che lasciano intravvedere la tensione dei corpi, i paesaggi naturali che fanno da sfondo alle azioni, donano agli affreschi una vena di forte realismo. Il raggruppamento delle figure, i movimenti dei corpi, le loro posizioni, le teste ben proporzionate dei diversi personaggi, lasciano pochi dubbi sulla eccellente opera che il maestro Cavallini ha creato, portando il suo linguaggio stilistico verso un senso dello spazio più vero e moderno, anticipando almeno di un ventennio quella cosiddetta nuova arte che troverà in Giotto il suo maggiore esponente.
Il ciclo pittorico della cappella Brancaccio, è impostato su tre registri per lato. La parete di sinistra è affrescata con due episodi della vita di San Giovanni Battista ed una scena del calvario. La lunetta in alto a sinistra rappresenta il miracolo del calderone dove San Giovanni Battista, davanti all’imperatore Domiziano in trono, e a dei soldati romani, in prossimità di Porta Latina, esce illeso dall’olio bollente del calderone in cui era stato immerso. Il pannello centrale raffigura invece l’assunzione di San Giovanni in cielo. Accompagnato dai suoi fedeli compagni e da due angeli, il santo è in prossimità di un altare.
Nel registro inferiore, il Calvario é rappresentato dalla croce, posta al centro di due edifici in lontananza. Accompagnano Cristo un paio di santi, la Vergine e San Giovanni Battista. Sulla parete di fondo gli affreschi delle lunette ai lati del finestrone rappresentano, a sinistra un giovane, a destra un vecchio barbuto. Nel registro centrale a sinistra vi è descritta la vocazione di San Pietro e Sant’Andrea mentre nel riquadro di destra Sant’Andrea davanti al proconsole Egeas. Costui cerca di convincerlo ad abiurare per evitare di essere sacrificato.
L’ordine inferiore é diviso in due scomparti, a sinistra è rappresentato il miracolo di Sant’Andrea che, in veste di pellegrino, salva un vescovo dalle tentazioni femminili, a destra invece vi è la crocifissione di Sant’Andrea ed il proconsole Egeas che viene ucciso da un drago. Gli affreschi della parete destra rappresentano episodi della vita della Maddalena, assai cara al sovrano Carlo II che aveva ritrovato, proprio in Francia, le spoglie della santa donna, vissuta in eremitaggio nella grotta della Sainte Baume, rappresentata nella lunetta superiore. Qui l’angelo le porta la comunione mentre ella è in ginocchio con la sua folta, bionda e lunga chioma. Al centro è riportato l’episodio straziante del Noli me tangere, di un realismo unico. Nell’ultimo ordine in basso, purtroppo frammentario, era raffigurata la cena in casa di Levi.
Secondo alcuni critici, Pietro Cavallini aveva eseguito tantissimi altri affreschi, andati ormai perduti, nel complesso di San Domenico. Di questi rimane solo un Sant’Antonio Abate nella quarta cappella della navata destra.
La presenza di Cavallini nella capitale angioina è attestata in varie altre chiese e complessi monastici. Alcuni frammenti di affresco in San Lorenzo Maggiore sono attribuiti all’artista romano. Nella Chiesa di Donnaregina, voluta dalla regina Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II, vi è un ciclo di affreschi, nel coro delle monache, da molti ritenuto del Cavallini. All’interno del Duomo di Napoli, infine, oltre a resti di affresco nell’ultima cappellina di destra della Cappella di Santa Restituta e a frammenti nella Cappella Minutolo, negli ultimi tempi sono stati attribuiti a Pietro Cavallini anche gli affreschi della Cappella Tocco o di Sant’Aspreno, anch’essi organizzati a registri inframmezzati da riquadri a finto mosaico cosmatesco. Anche qui le figure dei santi e degli apostoli, tra ornamentazioni e architetture, sono simili a quelli creati dal Cavallini sia a San Domenico Maggiore di Napoli che nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere.
Di recente sono state avanzate ipotesi (H. Yakou) su un eventuale intervento del maestro romano anche in alcuni scomparti del chiostro grande del Complesso Monastico di Santa Chiara ma la questione è ancora dibattuta.